Un secolo a stanare virus e batteri che arrivano alle nostre tavole
L’Istituto zooprofilattico compie un secolo. E cerca nuovi spazi. L’istituzione che controlla la salubrità degli alimenti sta ancora nella storica palazzina in stile liberty di via Bologna 148. Dietro, dove allora c’era spazio per tenere i bovini sotto osservazione tra i prati, ora, c’è un ritaglio in mezzo ai condomini che è tutto un acrocchio di fabbricati, nati pezzo dopo pezzo per fare fronte al lavoro di indagine e di studio che è andato crescendo negli anni. Ma ora quegli spazi sono davvero stretti: le analisi per malattie dal forte allarme sociale come l’aviaria o mucca pazza vengono svolte persino in un container mobile che dovrebbe essere un’unità di emergenza da spostare nelle zone di infezione ma che viene anche utilizzata come laboratorio ordinario, per mancanza di spazio. Spazio che manca anche dentro le palazzine dove i tecnici e i ricercatori stanno tra i microscopi e gli scatoloni; dove per muoversi bisogna tirare indietro la pancia; dove pratiche molto avanzate, come sperimentare la contaminazione batterica di salumi autoprodotti per poi trovare l’antidoto, devono convivere con le analisi ordinarie.
L’Istituto zooprofilattico sta anche aspettando una nuova legge regionale che faccia chiarezza sulla governance. Quello che un tempo era il luogo di controllo sulla sanità animale e per l’incremento delle razze, oggi ha compiti vasti di sicurezza alimentare ed è finito schiacciato tra la confusione istituzionale italiana. Dipende dal Ministero della Sanità, è legato a filo doppio proprio all’Istituto superiore di sanità. Ma è anche inserito nel sistema sanitario regionale. È un Istituto zooprofilattico che insiste su tre regioni (Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), e le tre Regioni devono trovare un accordo su come recepire la legge nazionale sul riordino degli enti e istituti vigilati dal Ministero. Poi si dovrà formare un nuovo Cda e nominare un direttore generale.
“Si era parlato di trovare un nuovo spazio a Grugliasco (Torino), nel nuovo polo universitario dei dipartimenti scientifici – ricorda Maria Caramelli, direttore sanitario che, da anni, sta svolgendo anche funzioni di direttore generale – Poi non si è più saputo nulla. Stare in nuove strutture accanto a Veterinaria e Agraria sarebbe la cosa migliore: per un Istituto che ha buona parte delle sue attività dedicate alla ricerca, sarebbe il massimo operare dentro un’area universitaria insieme ai ricercatori che si occupano di sanità animale e di alimenti. Sarebbe possibile incrementare scambi e progetti comuni”.
Nella sede di via Bologna, dove presto partirà un calendario di festeggiamenti di questi 100 anni di attività che comprenderà anche una mostra su come sono cambiate, negli anni, le funzioni dell’Istituto, lavorano 200 dipendenti sul totale di 400 tra Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. Si fanno un milione e mezzo di analisi l’anno. “La nostra attività è diventata sempre più importante – continua la Caramelli – perché le preoccupazioni dei cittadini intorno alla sicurezza alimentare sono in continua crescita. La gente chiede una tutela sulla sanità degli alimenti sempre maggiore e, quindi, controlli sempre più stringenti. Così scopriamo la carne di cavallo nel ragù, spacciata per carne di manzo; scopriamo batteri nei frutti di bosco surgelati; controlliamo tutte le epidemie di malattie animali che possono essere trasmesse all’Uomo. Facciamo ricerca per scoprire metodi nuovi per intercettare i rischi per la salute umana trasmessi dagli alimenti; forniamo prove documentali per i processi per sofisticazioni e contaminazioni alimentari”. Un’azione che ha bisogno di spazio. “L’opinione pubblica chiede, per esempio, sempre più controlli efficaci anche sui micro inquinanti come Pcb e diossine. Con spazi adeguati potremmo incrementare il filone delle contaminazioni ambientali”.
I problemi stanno anche nei limiti di bilancio. L’Istituto vive (per le tre regioni) con 35 milioni, di cui 30 arrivano direttamente dal Fondo sanitario nazionale e 5 da progetti speciali di ricerca più il programma di sorveglianza per il mordo della mucca pazza. “Forse bisognava investire di più negli anni di vacche grasse, per restare in tema. Forse l’Istituto ha mancato di lungimiranza e di progettualità per il futuro. Ma ora dobbiamo fare i conti con una realtà che vede tagli dapperttutto tra gli enti pubblici, non solo sul nostro bilancio. Dovremo certamente essere più bravi a trovare fondi europei per la ricerca, ad incrementare i programmi di sorveglianza, che sono attività in espansione e sono attività pagate: si pensi che il nostro modello di sorveglianza per mucca pazza ce lo ha comprato il Brasile. Ma per espandere queste attività dovremmo avere nuovi spazi. Invece questo è un argomento che non è più stato toccato dalla politica. Anzi, da due anni, non abbiamo più nemmeno fondi regionali. Eppure qui si formano “cervelli” che poi, stufi di fare i precari, se ne vanno all’estero; qui teniamo sotto controllo la salute della popolazione analizzando quello che viene servito nelle mense scolastiche, quello che vi
ene importato, quello che viene venduto nei supermercati. Siamo noi la prima risposta concreta e quotidiana alla richiesta di sicurezza alimentare che viene dai cittadini”.